lunedì 15 aprile 2024

L'ultimo dei Mohicani - James Fenimore Cooper

La ricetta per ottenere di sicuro una noia mortale: una sfilza infinita di azione-inseguimento-battaglia-colpo di scena-depistaggio-nuovo inseguimento-nuova battaglia, tutti finalizzati a sé stessi. In teoria con siffatta struttura dovrebbe essere un autentico page-turner, e invece l'uniformità della densità di azione finisce per ottenere l'esito opposto, una spaventosa piattezza. I cattivi si incarogniscono ad inseguire i buoni fino in capo al mondo per puro spirito di cattiveria: gli sceneggiatori del film si sono dovuti inventare un risentimento particolare e personale da parte di Magua nei confronti di Munro, e non potevano fare diversamente, perché nel libro non c'è traccia di ciò e quella cattiveria fine a sé stessa diventa una cosa un tantino patetica anche volendo contestualizzare l'opera. 

Del resto, nei rarissimi e brevissimi momenti in cui l'azione si ferma, il risultato è anche peggio di quanto sopra descritto perché sentiamo (leggiamo) Occhio di Falco impegnarsi in imbarazzanti discussioni teologiche/teosofiche con Chingachcook o con Duncan o con il cantore di salmi (personaggio, quest'ultimo, anch'egli patetico, al punto da essere stato del tutto bannato dalla sceneggiatura del film); e le cose vanno ulteriormente peggio quando questo cantore David Gamut apre il suo libriccino e di punto in bianco si mette a cantare, anche nel bel mezzo della battaglia furiosa e del massacro da parte degli Uroni ai danni degli inglesi: scene che superano ampiamente il limite dell'imbarazzo.
La teatralità-pomposità-verbosità ci stanno anche in un libro d'annata, anzi sono io la prima a ricercare il linguaggio antiquato ed a impegnarmi per contestualizzare il tutto calandomi nell'epoca in cui il libro è stato scritto: ma qui la leziosità e la pedanteria sono veramente di troppo. Negli ultimi due giorni di faticosa lettura avevo notato che con l'eccesso di verbosità, alcune frasi risultavano di dubbia e/o oscura comprensione. Grave concorso di colpa con i numerosi refusi, con quella che mi pare essere una scarsa accuratezza della traduzione e, nel complesso, una scarsa accuratezza nel lavoro di editing e revisione (se le frasi di dubbia comprensione le ho notate io, doveva prima notarle qualcun altro). 

Ero tuttavia decisa a portare a termine la faticata, come al mio solito, per avere TUTTO il materiale necessario per stroncare per benino il romanzo. Ma a pagina duecentosessanta, l'incipit del ventunesimo capitolo mi ha obbligata ad abbandonare la lettura, ne va della mia dignità di lettrice. Non si può leggere una cosa del genere e avere la forza, il coraggio, anzi, lo stomaco per proseguire: 
"La compagnia era sbarcata ai confini di una regione che, gli abitanti degli stati dei nostri stessi giorni, è meno conosciuta dei deserti d'Arabia o delle steppe tartare." Con ogni probabilità si tratta di un banale refuso, semplicemente doveva esserci scritto "PER gli abitanti degli stati", ma poi no, anche così è davvero scritta malissimo. Quindi abbandono senza rimpianti. 

Altra nota di demerito per l'edizione Garzanti: io non ho problemi a leggere i caratteri piccoli, quindi mi sta benissimo ridurre di un punto o due la dimensione dei caratteri per risparmiare carta e spazio; ma che diamine, a tutto c'è un limite, anche al risparmio!

Morale: una delle batoste più sonore degli ultimi mesi. Ero partita con la convinzione di voler scoprire un capolavoro dai più sottovalutato; ora invece devo ammettere che se ci sono in giro così tante recensioni negative un motivo c'è. Ero partita scrivendo un sacco di note per l'analisi dei punti di contatto e punti di differenza tra il libro e il film, e altrettante note riguardo il fatto che questo mappazzone sia stato per lungo tempo catalogato come letteratura per ragazzi, ma non vale proprio la pena di perder tempo a ricopiarle. Di sicuro c'è che il libro di Cooper è invecchiato male, e poi mi terrò il dubbio se non sia nato già vecchio come il protagonista di Benjamin Button, ma in questo caso senza speranza alcuna di poter iniziare a ringiovanire. 


venerdì 29 marzo 2024

Oliva Denaro - Viola Ardone

Ultimamente mi capita spesso. All'inizio lo giudicavo male, mi pareva una robetta trita e anacronistica, mi suonava fesso come una campana con un'incrinatura, soltanto un libro furbettino e leggerino, e poi mi sono dovuta ricredere: tanto leggerino non lo è, c'è del vero in queste pagine. Mi pareva che a proposito delle differenze tra donne e uomini nell'Italia conformista e perbenista e bigotta e rurale e superstiziosa degli anni cinquanta-sessanta, non ci fosse più niente da aggiungere che non fosse già stato detto/scritto. E ancora, mi dicevo: per lo meno ci sarebbe da inventarsi una forma, una struttura diversa dal solito: e invece no, perché anche la struttura qui rivela un'eleganza innovativa. L'elemento che ha scatenato il mio ripensamento, in questo caso, è stato leggere tra le recensioni che il romanzo è ispirato ad una storia vera: dunque ha l'indubbio merito di averla saputa ricostruire e rielaborare; e anche nelle parti di fiction che lì per lì possono sembrare improbabili, qualcosa di più o meno realistico deve per forza esserci. L'arretratezza mentale e culturale che qui si racconta è un dato di fatto, e grazie al cielo inizia a far parte della Storia. E l'attualità che qui si racconta sta nel meccanismo perverso per cui un uomo si incaponisce sempre su quella donna che non lo vuole, e analogamente lo stesso succede alle donne, innescando così catene di malelingue, di taglia-e-cuci e catene di Sant'Antonio di incomprensioni non solo tra uomini e donne ma anche e soprattutto all'interno delle famiglie.

Altro merito e altro elemento di realtà: tra tanti romanzi capitatimi tra le mani ambientati nel Sud Italia, questo è uno dei pochi che contempla effettivamente i metodi mafiosi di ricatto e intimidazione. Gli altri di solito sembrano propendere per quella tesi secondo cui "la mafia non esiste".


Come già hanno osservato in tanti, c'è un bel rapporto padre-figlia, a mio avviso bello perché fatto tutto di dubbi e nessuna certezza. E anche Oliva: bel personaggio perché fatto tutto di sfumature, non è mai tranchantOliva non è di immediata comprensione: non lo è per il lettore e non lo è nemmeno per sé stessa, allorquando, voce narrante, dichiara una cosa ma il suo corpo e le sue sensazioni ne dimostrano un'altra. E del resto, questo è il succo dell'adolescenza, e tanto di cappello all'autrice che l'ha ricostruita con il giusto passo.


La violenza, sia fisica che psicologica, con tutti i conseguenti dubbi e paure e paradossali sensi di colpa, è qui presentata e approfondita molto molto meglio che nel libro di Stella Poli il quale vorrebbe - in teoria - essere più diretto e scarno e poco romanzesco.
Dunque il giudizio è estremamente positivo anche con la presenza di quei lievi difetti e/o stonature*) che a inizio lettura mi hanno distratta dal guardare l'opera in maniera più generica e complessiva.

   

*) Di primo acchito, rilevo parecchie ripetizioni: l'espressione "languore di stomaco" viene usata un'infinita infinità di volte. Non si poteva trovare un sinonimo, un succedaneo (già che parla di buon uso del vocabolario)? Stessa cosa per la "fitta al basso ventre", usata sia in senso di emozione positiva, che in senso negativo, e anche fisiologico.

Altra cosa che salta all'occhio sono gli anacronismi: il problema dei mestieri declinati al femminile (essenzialmente i soliti sindaca e ministra) è una faccenda troppo recente, negli anni cinquanta/sessanta non era venuto tanto in mente nemmeno alle femministe più navigate, figurarsi a una ragazzina di quindici anni nella profonda provincia del sud. Dice che nel vocabolario non ci sono queste parole al femminile: ma nel vocabolario tutti i termini, aggettivi e sostantivi, sono al maschile...!

Stesso discorso quando la ragazzina osserva che la sorella maggiore non esce più di casa, che è come murata viva: ma il concetto dell'"uscire di casa" per svagarsi, per stare in compagnia, per prendersi il proprio tempo e i propri spazi, è una cosa tanto più contemporanea rispetto il mondo e l'epoca in in cui è ambientato il romanzo!

martedì 12 marzo 2024

La salita dei giganti - Francesco Casolo

 Credevo di interrompere la lunga sfilza di letture "montanare" e alternare con una bella saga familiare. Poi apro il volume e scopro che l'autore è un appassionato di montagna e da questa sua passione è nata l'idea per iniziare la stesura del romanzo. E questo è quanto dovevo aggiungere all'annoso argomento dei libri che sono loro a scegliere noi e non viceversa.


Piacevolmente leggero. Pur non arrivando a essere frivolo, e pur basandosi su un numero di documenti storici, si prende comunque parecchie licenze nel fantasticare sulla parte di fiction. A tratti mi è suonato ingenuo, altri tratti mi hanno portato a riflettere sul fatto che buona parte del racconto si svolge dal punto di vista di una bambina prima e fanciulla poi, quindi tutto sommato una certa dose di ingenuità nei toni e nell'impostazione della narrazione è semplicemente calzante.
E così, quella che all'inizio mi pareva una storia tirata un po' troppo per le lunghe, arrivando verso la fine vedo che è una bella storia declinata al femminile, e in modo molto abile, per giunta, essendo stata (ri)costruita da un uomo. E quel che conta ancora di più è che qui ci sono donne comuni: dimostrano caparbietà e impegno, accolgono le gioie e affrontano i dolori, ma nessun super-potere da wonder-woman (una critica che mi sono sovente ritrovata a fare a diversi libri di diverse autrici italiane). Casomai sono gli uomini, per quasi tutta la durata del romanzo, ad apparire un po' troppo perfetti: tutti cavalieri, sempre gentili e premurosi nei confronti delle donne e sempre interessati a sentire quello che le donne hanno da dire, sempre attivamente partecipi delle loro preoccupazioni e dispiaciuti quando il lavoro li obbliga a essere lontano da casa, moglie e figli... insomma, sappiamo che la realtà non è proprio così, per lo meno non è sempre così, non funziona sempre così oggi e di sicuro non era la regola alla fine del XIX sec.

Quanto alla descrizione della Belle Époque, bisogna ammettere che è più descrizione che ricostruzione; c'è un po' più tell che show,  ma soprattutto la meraviglia con cui i protagonisti ammirano le novità della tecnologia e dell'arte del loro tempo, è più che altro il riflesso della meraviglia che c'è negli occhi dell'autore (e di tutti noi abitanti del XXI secolo) allorquando immaginiamo, ripensiamo a quegli anni.

E tuttavia: arrivando fino alla fine gli si perdona la modesta dose di ingenuità per il semplice motivo che si percepisce bene l'amore dell'autore per i suoi protagonisti, l'amore per la loro storia e l'amore che lui ha messo nell'andare a caccia dei loro fantasmi. Quindi quattro stelle senza bisogno di arrotondare. 

sabato 2 marzo 2024

Inverno - Ali Smith



Ecco un altro libro da ascrivere alla categoria "mi è piaciuto ma non mi è piaciuto", oppure "anche se ci ho capito poco, mi è piaciuto". Oppure più semplicemente: non l'ho gradito del tutto, alcuni passaggi mi sono piaciuti e altri meno.

Di certo è la roba più strampalata, più da fuori di testa che abbia letto da un bel po' di tempo a questa parte. A tratti mi pareva inutile, sono stata tentata di abbandonarlo. So che le letture troppo postmoderne non fanno per me: ma anche questo è uno dei motivi per cui non mi dispiace averlo finito; uscire dalla propria comfort zone, una volta ogni tanto, è comunque corroborante. 

Vorrebbe affrontare temi importanti, spinosi e di attualità (l'ecologia, le armi nucleari, le politiche migratorie): ma allora perché mescolarli nello stesso minestrone in cui ci sono anche visioni oniriche, una specie di realismo magico, discorsi che girano un po' a vuoto... no, messa così non funziona tanto bene nemmeno come minestrone. Ha voluto fare un passo più in là rispetto quanto aveva fatto con Inverness, e ha messo il piede in fallo. Imho, ovviamente.

Più di tutto, non mi è ben chiaro cosa rappresentino tutte queste teste volanti e sassi volanti e oggetti vari volanti non identificati. Procedendo con la lettura, ho avuto il sospetto che volesse trattarsi di una sorta di remake del Canto di Natale di Dickens. Tra i motivi per cui non ho abbandonato, anche la ricerca di una conferma di questo sospetto: alla fine, conferme non ne ho trovate, forse per comprendere meglio bisognerebbe aver letto anche Dickens. A un certo punto tutto questo dar importanza alle pietre mi ha ricordato un passo di Noi di Zamjatin, quando dice: "Ma non pensi che la vetta [della felicità] siano esattamente le pietre riunite in una società organizzata?"

Comunque, a suo modo, Ali Smith riesce a chiudere un cerchio: i dettagli di realismo magico non arrivano ad assumere senso compiuto; ma i rapporti tra i protagonisti, quelli sì, e tanto mi basta. 

lunedì 26 febbraio 2024

La gioia avvenire - Stella Poli

Le cose non andrebbero dette mai. Scritte, sempre.

Titolo sconosciuto di autrice sconosciuta. Dalla quarta di copertina si intuisce che ci saranno temi spinosi. Dalle primissime righe intuisco anche una scrittura "strana", chissà se riuscirò a farmela piacere. 

Il titolo del romanzo è il titolo di una poesia di Franco Fortini: con la poesia faccio un po' fatica, non è entrata nelle mie corde. Dello stesso autore ho preferito Foglio di via

Dopo le primissime pagine - forse è presto per giudicare, ma per definizione, una prima impressione si forma sulle prime pagine - la cosa più irritante è la scrittura, che mi suona dilettantesca. Guardo meglio in terza di copertina e leggo che l'autrice è "assegnista di ricerca in linguistica italiana" per cui forse dovrei vergognarmi per aver parlato di dilettantismo e cospargermi il capo di cenere. Ma tant'è: la scrittura è anche una faccenda musicale, se lei è linguista io sono musicista, e a me queste pagine non suonano bene per niente. 

Usa molte metafore esagerate, un po' ingombranti, che appesantiscono la lettura; cerca termini e vocaboli desueti che però poi non rendono immediatezza quindi sulla pagina non scorrono, fanno l'effetto della carta vetrata e invece la ricerca del termine desueto dovrebbe avere lo scopo di trovare il vocabolo perfetto che calza come un guanto; usa spesso il "ché" al posto di un semplice "perché" o di un semplice "così": da tutte queste caratteristiche si direbbe che voglia scrivere in maniera raffinata, quasi ottocentesca. Bene, glielo concedo. Poi però si trovano frasi scarne con totale assenza di punteggiatura e un solo verbo messo ad una qualche maniera. E allora le frasi scarne di questo genere, in stile Cormac McCarthy, fanno a pugni con la ricerca di raffinatezza ottocentesca di cui si diceva prima. Uno quando scrive deve decidere se vuole essere carne o pesce, non può fare un po' e un po'. Ho il serio timore che questo stile di scrittura me lo tirerò dietro fino in fondo, anche perché il romanzo è piuttosto breve. 

Comunque sia: c'è un racconto abbastanza dettagliato dell'infanzia, narrato in prima persona, che lascia presagire un disastro, si capisce che si tratta della quiete prima della tempesta. 

Fino ad ora, due frasi belle che vale la pena di annotare e finanche riutilizzare: da pag. 14: "imparare a cadere meglio che nei film americani" (molto più elegante del banale "cadere sempre in piedi"). 

E l'incipit: "Le cose non andrebbero dette mai". Poi nella mia testa l'ho immediatamente ed inesorabilmente integrato con una ulteriore precisazione. "Le cose non andrebbero dette mai. Scritte, sempre." 

E difatti io scrivo, scrivo tutto quello che non mi va giù, e la scrittura di questa autrice continua a parermi tutta una sciarada, un terribile esercizio di stile. 

Arrivo al momento del trauma, del disastro: una violenza da parte di un quarantenne, ai danni di una quattordicenne, e per di più una violenza che si configura come forma di vendetta contro la di lui moglie, questo è già un fatto sufficientemente crudo. Ma la parte peggiore deve ancora venire: il vero pugno nello stomaco è nella reazione del padre della ragazzina di fronte ai sospetti, di fronte al subodorare quel che sta accadendo. E' una cosa talmente truce che son rimasta lì per un po' a chiedermi se e quanto ci sia materiale (auto)biografico in questa cosa. Anche ammettendo e premettendo che un padre possa avere qualche difficoltà/perplessità nell'affrontare i problemi che riguardano la sfera sessuale della vita della figlia, anche considerando questo, la sua reazione è a dir poco crudele. Ma dopo un secondo mi sono ricordata delle crudeltà (puramente verbali, per carità, ma ce n'era abbastanza) completamente insensate e immotivate che mi hanno indirizzato i miei, di genitori, e quindi senza doverci più riflettere tanto giungo subito alla conclusione che sì, i genitori ce la fanno benissimo, a essere crudeli in maniera gratuita e immotivata: ce la fanno nella realtà come nei romanzi. 

Ho terminato la lettura in una notte di neve fitta e sottile, e così è calata un'alba violacea sul libro di Stella Poli (uno sciocco gioco di immagini e associazioni di idee: notte innevata - stella poli - stella polare. Buon Natale. Del resto era proprio il giorno del Natale ortodosso). Non credo che il libro mi lascerà granché: quella terribile costruzione delle frasi lasciate in sospeso, frasi spezzate, quel dire per non dire, oppure quel non dire per dire, un fiume di parole che non porta da nessuna parte, un fiume che si perde in una palude. 

E poi: più terribile dello stupro è la crudeltà del padre, ma ancor più crudele del padre è la mancanza di un sollievo nel finale. Non dico ci dovesse essere per forza un lietofine, per carità, e non certo una "guarigione", però un qualche cambiamento, una minima formazione, una qualche epifania C'è solo un barlume, una parvenza di epifania ma talmente piccola e flebile che non si può proprio chiamarla "finale". 

E poi mi accorgo che - con la narrazione che saltella dalla prima alla terza persona - non ho neanche ben compreso le protagoniste. Nadia e Sara. Sono due persone distinte che hanno avuto trascorsi analoghi? O è la stessa persona che si sdoppia, nella sofferenza sdoppia la sua personalità e parla di sé un po' in prima e un po' in terza persona? Oppure: la protagonista Sara, che da giovane ha subìto la violenza e che ora da adulta fa la psicoterapeuta, andando a parlare con l'avvocato ha fatto finta di parlare per una paziente immaginaria, Nadia - un po' come succede nei film e anche nelle barzellette, uno va dal dottore e parla sempre per conto di un amico o di un cugino, ma in realtà è di sé che parla. Sì, forse quest'ultima ipotesi è quella corretta ma in ogni caso mi irrita il fatto che non sia stata di immediata comprensione. Il romanzo affronta tematiche "necessarie" ma con questa scrittura diabolica gli dà una teatralità fuori luogo, sconveniente, non richiesta. 

Per completezza, per dovere di cronaca (sotto cui nascondo un puro spirito polemico) voglio citare l'apice, il parossismo dell'inutilità acrobatica delle metafore: "Ma poi preservavo quel dolore come una galleria del vento."

Cosa diavolo vuol dire? Intende dire che una galleria del vento preserva qualcosa al suo interno? In effetti una galleria del vento è intesa come luogo all'interno del quale isolare qualcosa dall'esterno, dal resto del mondo, ma allora la frase doveva essere "...preservavo quel dolore come IN una galleria del vento." Che poi non avrebbe senso ugualmente perché nella galleria del vento si isola un oggetto per testarne l'aereodinamicità, mica per metterlo sottovuoto come fosse un prosciutto. Oppure intendeva dire che una galleria del vento è una cosa da preservare sempre con cura? Potremmo chiedere alla Fiat, perché non è che proprio tutti abbiano giù in garage una galleria del vento. Conosco un cacciatore che nel seminterrato si è fatto fare un piccolo tunnel che usa come poligono di tiro, per tarare la carabina. Ma di gente con la galleria del vento, nel seminterrato, nessuno. Questa furbata inutile della galleria del vento, nella mia classifica personale, resterà seconda solo alla "barba che si implica di salgemma" ne Il diavolo sulla quarta corda di Giovanna Strano. 

E sarà proprio un caso che Giovanna Strano è dirigente scolastica e Stella Poli è "assegnista di ricerca in linguistica italiana"?

Dunque, del libro mi resterà qualcosa di buono: l'incipit opportunamente integrato, e Franco Fortini. Un po' pochino, ma meglio di niente.